Il compito del recensore è spesso ingrato. Non è mai piacevole. Ieri allo Sferisterio è andata in scena Turandot di Giacomo Puccini. L’ultimo capolavoro del Maestro composto tra il 1920 e il 1924 e non portato a termine. Puccini, stroncato da un male, lasciò degli appunti per il finale del terzo atto che vennero rielaborati da un suo allievo Franco Alfano. Più tardi un altro compositore italiano Luciano Berio compose una seconda versione del finale ed ora i teatri scelgono l’una o l’altra a seconda della sensibilità e soprattutto della capacità di pagamento dei diritti d’autore che nel secondo caso sono parecchio onerosi. Turandot è una fiaba ambientata in Cina, a Pechino, in un tempo lontano, che narra di una principessa che decide di andar sposa a chi, di sangue nobile, riuscirà a risolvere tre enigmi. Chi fallirà sarà decapitato. Tanti pretendenti persero la vita per lei finché Calaf, figlio di Timur re di Tartaria, non solo scioglie gli indovinelli ma riesce anche a conquistare il suo cuore. Puccini parte da questa semplice storia, piuttosto banale, e realizza un’opera fantastica ricca di notevoli particolarità musicali di assoluta modernità con attenzione particolare a tutte le correnti musicali del suo tempo: Impressionismo, Espressionismo, Seconda Scuola di Vienna. Contemporaneamente riesce a dare un taglio psicologico ai propri personaggi così profondo che ancor oggi il pubblico si riconosce in Calaf, Liù e Turandot stessa. Tutto questo fa si che il nostro Puccini sia considerato un grande protagonista della musica del primo Novecento e la sua opera sia posta tra i titoli che definisco “da far tremare i polsi” tanto è ricca di particolari, di elementi che devono essere evidenziati, di una notevole ricerca timbrica. C’è molto da lavorare con Turandot.
Da qualche anno a questa parte si avverte la necessità di stabilire un tema che orienti il pensiero dell’opinione pubblica e faccia da collante a tutto quanto succede durante la stagione, sia in relazione ai titoli delle opere scelte, che ai vari appuntamenti, “eventi” o presunti tali, che fanno da corollario alla loro messa in scena. Il direttore artistico lo erge a filo conduttore e più si rimane sul pezzo più costui acquista in spessore. Il M° Micheli è molto apprezzato per questo. Con mesi di anticipo le varie associazioni locali capitanate dai relativi altisonanti presidenti, ognuna per i suoi iscritti, organizzano incontri e seminari per dimostrare, attraverso erudite e bislacche elucubrazioni, l’attinenza delle scelte fatte al tema principale. Sul fronte della scuola è la stessa istituzione dello Sferisterio che propone altrettanti incontri per attrarre pubblico, per coinvolgere i giovani. Il tema conduttore caratterizza La notte dell’Opera, evento tra il carnevalesco e il conviviale, voluto in città per attrarre pubblico. In verità non ho mai capito precisamente se l’attrazione favorisce lo Sferisterio o le molteplici attività ristoratrici. Il tema della 53° Stagione Lirica maceratese è “L’Oriente”. Quali titoli migliori di Shi (opera moderna volutamente commissionata dall’Istituzione), Turandot e Butterfly si potevano scegliere. Riguardo ad Aida qualche problemino di identificazione inevitabilmente si pone.
Bene possiamo partire, la serata è calda, lo Sferisterio è quasi pieno e Turandot ci aspetta. Fin da subito noto qualcosa di particolare. All’ingresso fanno, per motivi di sicurezza, aprire borse e borselli. Mi sembra giusto in questo periodo è bene prendere le dovute precauzioni, ma solo dopo essermi seduto noto che dei tizi, brutti ceffi col passamontagna, mi fissano, con aria minacciosa, dal palcoscenico. Tranquilli non hanno eluso la sorveglianza sono uomini di scena. Nell’attesa sfoglio il libretto di sala e tra le note di regia leggo “la nostra ricerca (di Ricci e Forte ideatore del Progetto creativo) si è sviluppata evitando il fardello paesaggistico e oleografico abituale di Turandot (giacché l’orientalismo in sé non era neppure fra gli obiettivi di Puccini), andando dritti al nucleo del dramma: il disgelo di un cuore in inverno. Ma ciò non elude allora Il tema conduttore?
Cerco di dare una spiegazione agli scatoloni in scena a metà tra enormi celle frigorifere e delle gabbie visto anche la presenza di un enorme orso bianco. Non voglio e non devo avere pregiudizi. La messa in scena è moderna ma non significa che non possa essere funzionale ed esaltare comunque la musica.
Prima dell’inizio, ancora prima che l’orchestra perfezioni l’intonazione, si apre un piccolo siparietto in cui Turandot vestita con abiti che subito hanno portato la mia immaginazione a rievocare Moira Orfei (forse un tributo alla persona scomparsa), si muove su questa distesa bianca e getta del ghiaccio in terra abbassando e seccando tutti i brutti ceffi di prima che ora sembrano alberi. Tranquilli questo sta a rappresentare l’aridità di Turandot donna cinica e senza cuore e amore. Gli orchestrali intonano i rispettivi strumenti. È bene precisare (ma veramente qui siamo all’abc del teatro) che solo ora il pubblico capisce che lo spettacolo ha inizio e si predispone in tal senso. Tutto quello che è successo prima in palcoscenico non conta è come non fatto, viene identificato e percepito al pari di un necessario movimento tecnico. Tant’è che durante lo spostamento precedente il pubblico in sala ha continuato bellamente a parlare ignaro di tutto.
Vabbè comunque ora entra il direttore e Turandot inizia. Non ho nulla contro le regie cosiddette sperimentali e le scenografie moderne. Fin quando il loro impatto visivo non lede il contenuto musicale. Non è un caso che il tempo iniziale è risultato lento e tutto l’episodio caratterizzato da una noia mortale. I fattori che incidono in tal senso sono due. Mettiamoci nei panni del direttore d’orchestra che vede, come impatto emotivo, la scenografia e deve decifrarla e capirla. Abbiamo già citato tre frigoriferi-gabbia (in uno c’è l’orso) posti sulla scena in mezzo ai quali si è disposto il coro. I brutti ceffi attraversano in lungo e largo lo spazio. Potete non credermi ma l’effetto confusione è forte al punto che il povero direttore cerca di essere cauto e naturalmente, direi quasi involontariamente, stacca un tempo più comodo per poter seguire il contesto tanto è destabilizzante. Altra motivazione è di carattere più musicale e pragmatico: semplicemente non si è provato abbastanza.
Timur (Alessandro Spina) vestito da sposo e Liù (Davinia Rodriguez) in abito bianco con tanto di buochet (forse viene simboleggiato il suo desiderio di sposare Calaf, non so). Oltre loro Calaf (Rudy Park), veramente un Principe ignoto camuffato da compare Turiddu della Cavalleria Rusticana. Tutti e tre si muovono in modo grottesco fino a rasentare il ridicolo. Calaf quando nota Turandot (Irene Theorin) e rimane estasiato dalla sua bellezza canta “il suo profumo è nell’aria e nell’anima”. Il veder sfilare Moira Orfei in groppa all’orso polare non può non suscitare ilarità soprattutto quando il pensiero ci riporta alla scia lasciata dall’animale. Ping, Pong e Pang (rispettivamente Andrea Porta, Marcello Nardis e Gregory Bonfatti) sono vestiti da medici, da clown mentre l’imperatore (Stefano Pisani) in smoking. Questo impatto visivo ha molto influenzato, a mio parere, anche il rendimento musicale. Non sono mancate anche trovate di pessimo gusto. Far morire fucilati, in scena, una schiera di bambini per rappresentare la decapitazione del principe di Persia mi sembra veramente il ricercare l’effetto a tutti i costi in modo grezzo e triviale ancor più degli spogliarelli in scena e dei soliti corpi aggrovellati. Ricordo che è sempre più efficace il non vedere che assistere all’atto vero e proprio. Pensiamo al film Lo squalo. La paura ci assale quando arriva la musica e non vediamo altro che l’abisso; in quel momento la nostra mente costruisce il vero senso di terrore che subisce sempre un ridimensionamento proprio quando appare l’animale. Anzi quando lo si vede, tentiamo di sdrammatizzare uscendo con frasi del tipo “ma guarda quanto è finto etc” e ridendoci sopra. È proprio necessario far morire Liù per mezzo di una pistola? Non va più di moda il coltello in epoca moderna. Eppure i casi di cronaca sono pieni di omicidi per mezzo di quest’arma. Non solo, i signori Forte e Ricci sono andati oltre. Liù non muore di suo pugno ma viene uccisa da Turandot vero scoop derivato da anni di ricerche nel carteggio pucciniano. Vista l’enorme fantasia azzecchiamo almeno il momento. Liù muore mentre ancora il coro la interroga per estirparle il nome di Calaf. Errore grossolano! Comprendo che i personaggi nell’opera non muoiono mai, ma farli morire mentre gli altri interagiscono con loro penso non sia contemplato in nessuna piece teatrale; lo trovo ancor più ridicolo.
La buona riuscita dello spettacolo è stata inevitabilmente compromessa da tutto questo. Affinché gli interpreti tutti possano essere stati credibili e rendere di conseguenza credibile la lettura registica e scenografica ci sarebbe voluto, senza nessuna certezza nella riuscita, un numero di prove forse quintuplicato rispetto a quelle fatte. Si può eccepire dicendo che non ci sono i soldi per questo. Bene allora bisogna ricorrere a una Turandot più tradizionale o scegliere un altro titolo. E non mi si tiri fuori ancora il tanto declamato - pareggio di bilancio - che come per magia rende tutti gli artefici dei grandi professionisti e geni di teatro. Un pareggio di bilancio che prescinde dal risultato artistico è una mera operazione contabile. Se il risultato è scarso matematicamente si produce diseducazione nel pubblico che assiste a tali rappresentazioni vanificando, in una sola serata tutto quanto fatto a livello di chiacchiere in precedenza. Di conseguenza anche quei soli 100 euro spesi risultano del tutto spesi male.
Che salvare di questo spettacolo? Beh di getto direi il coro dei bambini e la Corale Bellini. Il primo perché, dopo la fucilazione, ha capito che è bene impegnarsi, si potrebbe fare una brutta fine. Il secondo ha dato segno di una discreta duttilità vocale. Tra i cantanti salverei Liù e Turandot anche se quest’ultima ha sì voce, ma non si capisce niente di ciò che dice. Perfino la parola Amor, nel finale, è risultata un vocalizzo AAAOOO forse con erre finale.
L’orchestra, dove intere sezioni non si sentono, suona sembra in un regime di mezzo forte. Ha uno spettro sonoro molto limitato. Per Turandot serve un po’ più di scaltrezza e magari nel periodo invernale farsi un po’ più le ossa con qualche sinfonia romantica e post-romantica anziché fermarsi sempre al solito Beethoven e Schubert. L’augurio è che la nuova presidenza anziché essere attiva politicamente (in arte non c’è politica di sinistra o di destra che conti ma vale solo il livello artistico) punti ad alzare la qualità musicale e ad ampliare il repertorio orchestrale. Solo questi parametri determinano la validità di un organico. Non basta scrivere sui giornali locali che sono tanto bravi.
Vorrei precisare un’ultima cosa relativamente alle note di regia. Benchè gli orientalismi non fossero obiettivo di Puccini, costui con molto garbo ed eleganza ha comunque creato degli stilemi musicali che sono entrati nell’immaginario collettivo ed ora sono considerati esemplari per suscitare il ricordo dell’oriente. Lui nonostante il nucleo del problema fosse stato un altro non ha evitato di occuparsi anche di aspetti ritenuti più marginali (o apparentemente inutili) perché solo così si fanno capolavori.
“Chi ha Paura non Vince Mai” è la frase che appare proprio sul finire con cui i registi chiudono l’opera. I coristi ostentando delle luci a led le puntano nel finale in platea. Ciò non è bastato ad aggraziarsi il pubblico nonostante un nutrico gruppo di amici compiacenti. Pochi gli applausi, forse tra i più applauditi il direttore d’orchestra M° Pier Giorgio Morandi.
(recensione di Massimo Paolella)
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