"Giotto non fu il principale autore degli affreschi della basilica di Assisi": l'analisi critica del professor Papetti
«Giotto lavorò agli affreschi francescani di Assisi? Probabilmente sì, ma non in posizione preminente rispetto agli altri artisti e non fu sua l’impostazione generale del ciclo». Nell’auditorium del liceo “Da Vinci” di Civitanova Marche, davanti alle duecento persone che hanno raccolto l’invito dell’Associazione dantesca e di “Arte”, il professor Stefano Papetti dice la sua sulla paternità dei dipinti della Basilica superiore. Senza nulla togliere alla statura gigantesca di Giotto, lo studioso ne ridimensiona il contributo alla realizzazione delle storie di San Francesco.
Secondo il professore, non ci sono elementi oggettivi per l’attribuzione giottesca. Il primo a parlare di Giotto nella Basilica superiore fu il Vasari, ma l’autore delle Vite, accanito sostenitore del primato della “toscanità” in campo artistico, scriveva 350 anni dopo i fatti. Quanto allo stile e alla tecnica ci sarebbe un grande divario con gli affreschi giotteschi della Cappella degli Scrovegni di Padova. Secondo Bruno Zanardi, che coordinò il restauro dopo il terremoto del 1997, le storie di Assisi avrebbero più analogie con la pittura dei maestri romani, magari di quel Jacopo Torritti, che fu pittore ufficiale di Nicolò IV, il papa francescano di Ascoli, che commissionò l’opera alla fine del Duecento.
Dello stesso avviso, il critico d’arte Federico Zeri. Dunque, la querelle sugli autori di questi affreschi, che sono il cardine dell’evoluzione di tutta la pittura europea del Medioevo, è ancora aperta, con il nostro Papetti che propende per la scuola romana. Papetti, tra l’altro, nel 2016, ha curato una mostra che ha permesso a cinque milioni di persone (anche in Brasile) di conoscere la pittura francescana da Cimabue a Caravaggio.
Al di là delle discussioni fra gli studiosi, resta la straordinaria bellezza di questa opera, con cui il papa francescano volle far conoscere san Francesco e promuovere il suo Ordine religioso. «Un’operazione di grande efficacia comunicativa – ha detto Papetti – di cui i francescani sono stati sempre maestri, fino ad oggi. Il santo più raffigurato al mondo non è san Pietro o san Paolo ma san Francesco».
Con l’ausilio di diapositive, Papetti ha condotto i presenti in una visita virtuale alla Basilica superiore, facendoli soffermare su alcuni dei ventotto episodi, tratti dalla Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio e impaginati in un crescendo di tensione narrativa da un altro francescano delle nostre parti: il cardinal Giovanni Minio di Morrovalle, generale dell’Ordine e stretto collaboratore di papa Nicolò.
Papetti si è soffermato su alcune “storie”, mettendo in evidenza il realismo degli autori che rompe definitivamente con la tradizione bizantina: il padre di Francesco che, prima di lanciarsi contro il figlio, si è premurato di mettere al sicuro i preziosi indumenti di cui il giovane si è spogliato; le architetture di palazzi ancora oggi esistenti che danno spessore storico agli eventi così come i luoghi della campagna umbra e le orditure lignee del tetto diroccato di san Damiano. A proposito della Predica agli uccelli, Papetti ha liberato Francesco da alcuni lughi comuni che lo vorrebbero un ecologista ante litteram. Lo ha fatto citando Chiara Frugoni, autrice del libro L’altro Francesco.
«San Francesco non è un figlio dei fiori – ha affermato Papetti – In questo dipinto non è che va a parlare con gli uccelli perché gli uomini non lo stanno a sentire. Gli uccelli dipinti sono di diverse specie e ognuna di esse è espressione di una classe sociale: i rapaci indicano gli aristocratici, che cacciavano con il falcone; gli altri uccelli rappresentano le classi più basse. L’acuto regista del ciclo ha voluto dirci che san Francesco parlava a tutti».
Infine, le stimmate. Francesco fu il primo a riceverle nella storia del cristianesimo. I dipinti di Assisi ci dicono che non si trattò di ferite sanguinolente ma delle escrescenze sulla pelle che riproducevano la testa dei chiodi di Gesù. Le stimmate, ha ricordato Papetti, riattizzarono le polemiche con i domenicani, che non si sopirono nonostante i buoni uffici di Dante nella Divina commedia. Da ultimo, una terza citazione marchigiana. In una “storia”, un frate ha una visione: un angelo gli mostra, in Paradiso, il trono riservato a san Francesco. Il frate in questione è fra Pacifico, al secolo Guglielmo Divini, e viene da Lisciano, come papa Nicolò. Non è una persona qualunque. Prima di convertirsi, ebbe una straordinaria carriera di poeta, al punto da essere accolto nella reggia di Palermo di Federico II, dove fu incoronato “Re dei versi” dallo stesso imperatore. Francesco, per la sua cultura, lo inviò a Parigi, a fondare l’Ordine in Francia. La tradizione vuole che Guglielmo abbia fatto da consulente letterario nella stesura del Cantico delle creature.
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