Strage di via Carini, 40 anni dopo. Ecco perché è importante ricordare il gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa
Una raffica di Kalashnikov AK-47 può bastare per uccidere un uomo. Ma per riservare lo stesso destino alle sue idee e azioni, serve l’indifferenza e l’oblio. In occasione del 40° anniversario dalla scomparsa del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – occorsa con l’attentato mafioso in via Carini il 3 settembre 1982 – il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri ha scelto di riportare l’attenzione pubblica su uno dei pensieri più esaustivi del fu Prefetto di Palermo: “Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli”.
Una riflessione (al tempo) volta a smuovere le coscienze e auspicare un futuro degno di essere vissuto per le nuove generazioni, pacifico e scevro da ogni paura dal punto di vista sociale e civile. Dalla Chiesa aveva abnegazione nello svolgere il proprio lavoro e buon senso nell’esporsi a livello mediatico. Lui, che durante la Seconda Guerra Mondiale partecipò alla Resistenza contro il nazifascismo; che posto al comando della Legione carabinieri di Palermo condusse in prima persona quelle indagini operate dalla seconda metà degli anni ’60 e i cui risultati finirono nel famoso “Rapporto dei 114” (riferito alle cosche mafiose di Cosa Nostra); che nel pieno degli anni ’70 guidò il contrasto al terrorismo brigatista, forte anche delle rivelazioni fornite dal pentito Patrizio Peci.
Finchè non fece ritorno a Palermo nella primavera del 1982 (sotto il governo Spadolini) nelle vesti di prefetto, con la promessa da parte dello Stato di “poteri speciali” utili a portare avanti la lotta contro Cosa Nostra. Poteri che, in realtà, non gli furono mai concessi. Eppure, nel limite delle proprie possibilità, dalla Chiesa portò avanti le sue inchieste, puntando alla pancia delle pubbliche amministrazioni (colpevoli, secondo lui, di favorire le infiltrazioni criminali all’interno delle istituzioni) e riuscendo persino a redigere il cosiddetto “Rapporto dei 162” (nel quale veniva ricostruito l’organigramma delle famiglie mafiose palermitane).
L’ostracismo locale e nazionale, però, non tarda a manifestarsi. Il generale piemontese viene presto isolato dai suoi colleghi, trovandosi per questo costretto anche a fare i conti con la muta ostilità dei politici siciliani. Le sue azioni vengono d’un tratto sminuite e derise, e - non ultimo - anche il suo secondo matrimonio con Emanuela Setti Carraro finisce con l’essere strumentalizzato (lei di 30 anni più giovane). Per capirci, in un’intervista al Manifesto (agosto 1982) un anonimo funzionario della questura di Palermo dichiarò: “Dalla Chiesa farebbe bene ad andarsi a sciacquare le palle al mare e a non rompere i coglioni qui da noi”.
Era chiaro che la precisa e minuziosa strategia del gen. aveva suscitato il panico tra i mafiosi e i loro garanti nascosti tra le fila della politica - Democrazia Cristiana in prima linea - e della magistratura: sua l’espressione “ingiustizia che assolve” usata per definire le sentenze dei giudici sospettosamente indulgenti nei confronti di taluni criminali. Abbastanza da decretarne la condanna a morte, insieme alla moglie e l’agente di scorta Domenico Russo.
Un destino tragico e silente, comune a tutti coloro che in quegli anni - da sotto una toga, da dietro una divisa o con una penna in mano - avevano la sfortuna di costituire un’anomalia all’interno del complesso sistema italiano: colpa di quell’ostinata propensione a “servire lo Stato, preservare le leggi, combattere per la giustizia civile in nome della collettività”. Una serie di requisiti che lo stesso dalla Chiesa esigeva da ogni giovane aspirante carabiniere a dispetto di sacrifici e rinunce, e che in qualche modo andrebbero reintegrati all’interno di una società come quella attuale che, nonostante i potenti mezzi a disposizione, dell’opportunismo e dell’omertà sembra voler insistere nel farne i pilastri della propria identità (e non solo in riferimento al "cancro mafia").
Il suo discorso (forse) più emblematico, il compianto generale originario di Saluzzo (CN) lo tenne il primo maggio 1982, all’indomani del brutale assassinio per mano mafiosa di Pio La Torre e Rosario Di Salvo. “Se esiste un potere, questo è solo dello Stato e delle sue istituzioni e delle leggi. Non possiamo oltre delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti. Potere può essere un sostantivo nel nostro vocabolario, ma anche un verbo. Ebbene io l’ho colto in questo senso e lo voglio sottolineare in tutte le sue espressioni […]. Poter convivere, poter essere sereni, poter guardare in faccia l’interlocutore senza abbassare gli occhi, poter ridere, poter parlare, poter sentire, poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa”.
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