Gioia Bartali racconta la Resistenza di nonno Gino. “Esempio di amore e giustizia, valori che oggi mancano” (FOTO)
“Esiste una leggenda nella tradizione ebraica: nel mondo, in ogni epoca, ci sono 36 giusti, uomini normali. Nessuno sa che esistono, nemmeno loro sanno chi sono. Ma quando ci sarà bisogno di loro,usciranno allo scoperto e si adopereranno per il bene di tutti. Dopodiché torneranno alla loro vita, senza dire nulla o volere qualcosa in cambio. Questa è la differenza fra un giusto e un eroe”.
Il ricordo di Gino Bartali passa per questa ‘favola’, ci spiega la nipote Gioia. Lei – 52 anni, residente a Montegranaro – si impegna ancora oggi nel portare in giro la storia di suo nonno. Quella del Ginettaccio campione negli anni ’30-‘50 di Giri d’Italia, Tour de France e altro ancora. Quella del rivale-amico di Fausto Coppi.
Non ultimo, quella dell’uomo pieno di valori come la famiglia, il rispetto, la riservatezza e la fede. Valori che lo hanno portato ad essere durante la Seconda Guerra Mondiale, “Gino il Giusto”: il ciclista che grazie alle sue gambe è riuscito a salvare circa 800 ebrei perseguitati dai nazisti-fascisti. Oggi Gioia Bartali porta avanti con orgoglio la storia di suo nonno. Perché “è una storia che al mondo piace, soprattutto ai ragazzi. Per questo vale ancora la pena raccontarla”.
Immagino che in occasione di ricorrenze come il 25 aprile molte persone la cerchino. Di solito cosa racconta? Sottolineo come quella di Gino sia stata una Resistenza “non armata”, al contrario di quella partigiana. O meglio, lui aveva il suo modo di fare la differenza: non avrebbe mai preso in mano un fucile. Si è messo a disposizione degli altri affidandosi unicamente alle sue capacità sportive: percorreva anche 360 km (Firenze-Assisi per capirci) in un giorno per trasportare i documenti falsificati nella canna della sua bicicletta.
Il fatto di essere un 'campione italiano' lo ha favorito? È molto probabile. Venne contattato direttamente dal vescovo di Firenze, Elia Dalla Costa, che insieme al capo rabbino Nathan Cassuto avevano già messo intessuto la rete clandestina per salvare le persone dai nazifascisti. Dalla Costa aveva già sposato nonno nel ’40, battezzato il figlio – mio padre – nel ’41: c’era un ottimo rapporto fra di loro.
Sembra una storia di altri tempi quella di Gino Bartali. Sfiderei chiunque oggi a fare quello che ha fatto lui, come lo ha fatto lui. Se provassi ad immaginare un idolo sportivo come Cristiano Ronaldo impegnarsi così, di nascosto persino alla famiglia, sarebbe quantomeno bizzarro. Del resto, anche oggi c’è chi fa la differenza: basti pensare a chi si sta prodigando per aiutare i profughi ucraini. Tante storie di solidarietà di cui, però, sentiremo parlare solo tra qualche anno.
Perché è ancora importante raccontare le geste sportive e umane di Gino Bartali? Se lui avesse voluto delle onorificenze, avrebbe dovuto semplicemente raccontare di ciò che aveva fatto durante la guerra, mettendo a repentaglio la sua vita e quella della sua famiglia. Invece no: lui era riservato e rispettoso, in pubblico come nel privato. Oggi, al contrario si va in cerca del riconoscimento a tutti i costi.
Non ha mai parlato male di nessuno? Vi racconto questo: negli anni ’90 fu invitato dal Comune di Montegranaro per un convegno. In quell’occasione gli chiesero di parlare di Fausto Coppi e Giulia Occhini ‘la Dama Bianca’, tanto per mettere pepe allla loro storica rivalità. Nonno rispose: “Non sono qui per parlare dei fatti privati degli altri, sono qui per parlare di sport”.
Domanda di rito: chi passò la borraccia a chi sulla salita del Col du Télégraphe al Tour de France del ’52? È un simpatico trauma che mi porto dietro sin dall’infanzia. Dopo la scomparsa di Coppi, nonno usava fare una controdomanda ai curiosi: “Tu tieni per me o per Fausto?”, e se gli rispondevi “sono Coppiano” allora ti confessava che la borraccia gliel’aveva passata lui. E viceversa. Anche io oggi mi diverto con Faustino e Marina Coppi a tramandare questa rivalità-amicizia così bella.
Qual era secondo lei il loro segreto? Se ne sono date tante a pedali, ma rappresentavano insieme l’Italia post bellica, quella popolare che seguiva assiduamente il ciclismo e celebrava i suoi campioni. Ma nel famoso scatto fotografico io ci vedo soprattutto la solidarietà, un valore da trasmette più che mai oggi ai ragazzi. Gino diceva sempre: “Se lo sport non è solidarietà e scuola di vita, allora non serve a niente”.
Cos'altro ha spinto suo nonno ad agire come ha fatto, durante la guerra? C’era anche la fede fra i suoi valori. Rimase molto scosso dalla morte del fratello Giulio nel ’36, a causa di un incidente. Nonno aveva vinto da pochi giorni il suo primo Giro d’Italia, quando entrò in una profonda crisi a causa di quel tragico evento. Si risollevò grazie al suo amore per famiglia e amici, e addirittura decise di prendere i voti come Terziario Carmelitano.
Quale è stata la prima volta che le ha raccontato la sua storia? Non lo ha mai fatto. Anzi, si arrabbiò persino quando le sue vicende furono riportate nel film “Assisi Underground” attraverso il personaggio interpretato da Alfredo Pea. Fu a mio padre Andrea che raccontò per la prima volta tutto, durante un viaggio, facendogli promettere di tenerlo per sé. “Racconterai questa storia quando sarà il momento giusto”, gli disse.
E lei non è mai stata curiosa? Io e mia sorella abbiamo ricevuto un’educazione ferrea: avevamo imparato anche noi ad essere riservate. Nonno Gino sapeva che di lui ne avrebbero parlato molto di più dopo la sua morte. E fino all’ultimo ha preferito tacere: “certe medaglie si attaccano all’anima, non alla giacca”.
Qual è stata l’ultima cosa che vi siete detti? Non me lo hanno mai chiesto. Il nonno, fra le altre cose, era anche poco espansivo fisicamente. Ma aveva due occhi celesti e buoni che parlavano al posto suo. L’ultima volta che lo vidi, ero andata a trovarlo con mia sorella: lui ormai era in carrozzina, non stava più tanto bene. Gli parlavo, e lui mi rispondeva con i suoi occhi buoni. Poi gli diedi un bacio prima di andare via e una lacrima gli rigò il volto: fu un momento emozionante per me che non lo avevo mai visto piangere.
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