Le "domande di Laooconte" a Matteo Ricci: quattro quesiti (ancora mai fatti) al candidato presidente
Laooconte ammonisce i troiani incuriositi dal cavallo: "Timeo danaos et dona ferentis". A Citanò dovrebbero saperlo meglio che da qualsiasi altra parte ché Annibale Caro resta il più alto interprete – non solo tradusse, ma la rideclinò in versi – dell’Eneide di Publio Virgilio Marone. Ma anche a Macerata – quando la cultura in questa città non era fenomeno da baraccone governata com’è da chi è convinto che la si debba solo mostrare e invece occorre dimostrarla – quel verso di Virgilio suona familiare dacché i Catenati, accademia sorta quasi in continuità con Caro, ne raccolsero l’eredità.
Il civitanovese scompare nel 66 e l’Accademia si fonda nel 1574; comme d’habitude l’assessorato alla (in)cultura lo scorso anno si è ben guardato dal ricordarsi del 450 esimo di fondazione di questa che è e resta una delle più antiche “società” letterarie d’Europa. E che spiega perché Macerata ospiti ben cinque case editrici pur nella finitezza dei propri confini (se si allarga alla provincia il numero sale con invidiabile progressione): tutte con una propria specificità, tutte con una linea editoriale che le pone ai vertici nazionali.
Dunque “timeo danaos et dona ferentis” dovrebbe essere lo spirito con cui i cittadini, ma prima ancora i mezzi d’informazione, s’approcciano alla campagna elettorale (per la verità moscia assai) che percorre come la carovana di un circo le nostre lande. Pare – sia detto per inciso nonostante la trincea di via dei Velini – assai più attrattivo il luna park ospitato a Villa Potenza davanti alla grande incompiuta: il centro fiere.
Dove comunque si promettono ricchi premi, cotillons e giri di giostra. Esattamente, anche se più mestamente, come in questi comizi a cui conviene assistere con l’ammonimento di Laooconte come sottofondo: temo i danai anche se portano doni! E’ venuto in mente al vostro Giullare questo verso leggendo le cronache del primo faccia a faccia tra il presidente della Regione uscente e forse rientrante Francesco Acquaroli e l’eurodeputato del Pd Matteo Ricci già plenipotenziario di Pesaro.
Andrebbe notato che in lizza ci sono 6 candidati presidente per 18 liste e a dirla tutta non è un grande esercizio di democrazia limitare i confronti a due sole voci. Ma qui sta il cavallo. Pare che quando Matteo Ricci si è affacciato a Macerata qualcuno abbia pensato che l’incontro andava fatto in largo Li Madou – uno dei pochi lavori promessi e portati a termine da questa giunta e non a caso voluto dall’assessore Silvano Iommi che per qualificare lo spazio adiacente alla loggia del grano non ha interrotto il traffico né interferito con alcuna attività – ma l’omonimia non sempre fa titolo, anzi. Ebbene ascoltando o leggendo delle perorazioni di questo omonimo si sente davvero il bisogno di evocare Laooconte.
Com’è scontato il pesarese va promettendo questo e quello e criticando questo e quello. Più che un’assonanza con l’immenso gesuita maceratese si coglie una simiglianza con Antonio Albanese, alias Cetto Laqualunque. Perché costui sentenzia su laqualunque! Non che gli altri facciamo diversamente.
E tuttavia a Matteo Ricci il dubbio virgiliano s’attaglia un po’ di più. Le ragioni sono quattro e molto semplici. Come si sa egli è stato raggiunto da un avviso di garanzia emesso dalla Procura della Repubblica di Pesaro nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta Affidopoli. Il Pd strepita come al solito di “gomblotto” e di macchina del fango per giustificare perché ha insistito a candidare Ricci e si è sottoposto persino all’ordalia voluta da Giuseppe Conte il quale alla fine ha emesso il suo verdetto come Minosse che “orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l’intrata; giudica e manda secondo ch’avvinghia.” (Inferno canto V).
Ma se uno si ricorda di Laooconte allora, come suggeriva l’indovino ai troiani, al candidato Matteo Ricci andrebbero poste quattro domande per sapere se ciò che egli va menando per le piazze è promessa, e dunque dono di futuro, o cavallo acheo e dunque minaccia. Sono semplici ed è strano che nessuno gliele ponga.
Sarà forse l’euforia da competizione o l’anestesia da par condicio che assopisce i nostrani mezzi d’informazione. O sarà il fatto che il candidato Ricci quando gli si fanno domande non programmate un po’ sbrocca. Non sarà difficile ricordarsi del 15 giugno scorso quando Manuela Iatì, inviata del programma Rai “Far West” osò chiedergli che pensava del fatto che l’Anac – autorità anticorruzione – avesse eccepito su nomine e affidamenti d’incarico in quel di Pesaro mentre lui era Sindaco.
Così egli rispose: "Siete al servizio di Fratelli d’Italia". Viene il sospetto che pensi la medesima cosa dei magistrati pesaresi che da lì a quaranta giorni gli hanno spedito l’avviso di garanzia. O forse no visto che, come ha comunicato Gioacchino Genchi avvocato di Massimiliano Santini, già braccio destro di Ricci e principale accusato nell’inchiesta Affidopoli: "La Procura differirà a dopo le elezioni la discovery (sarebbe l’illustrazione dell’impianto accusatorio con tanto di prove) così da prevenire il rischio che gli esiti investigativi possano essere distorti o strumentalizzati per finalità politiche, arrecando grave danno sia ai candidati coinvolti nella competizione elettorale sia agli indagati".
Ecco il Giullare di Corte che per definizione schernisce il potere e per mestiere deve fare il ficcanaso non è d’accordo. Magari non si danneggia il candidato, ma di sicuro non si protegge l’elettore che va al seggio con in testa il laoocontiano adagio: timeo danaos et dona ferentis. E allora sarebbe il caso di fare a Mateo Ricci quattro domande.
La prima: se è così sicuro che non ci sono prove a suo carico visto che lui nulla di illegittimo ha fatto perché non rinuncia all’immunità da europarlamentare consentendo così l’acquisizione nel fascicolo “Affidopoli” delle sue conversazioni anche dopo il 5 giugno 2024 giorno della sua proclamazione come eurodeputato? Se lo facesse la trasparenza del suo comportamento sarebbe massima e certamente ne guadagnerebbe in autorevolezza.
Seconda domanda: Ricci corre per la poltrona di presidente della Regione, ma nel caso non avesse la maggioranza dei consensi e fosse perciò eletto solo come consigliere regionale si dimetterebbe da europarlamentare, perdendo dunque anche l’immunità a inchiesta comunque in corso, per portare nell’assemblea delle Marche quelle istanze che va proponendo sulle piazze? Ma se non restasse in consiglio regionale sarebbe evidente che lui ha introdotto nelle Marche un cavallo di Troia, perché non si può promettere questo e quello, criticare (giustamente) questo e quello e poi abbandonare al loro destino i cittadini e buttare nel cestino la loro fiducia.
A maggior ragione se si ritiene che la maggioranza che in questi cinque anni abbia malgovernato si avrebbe l’obbligo politico e morale di guidare la minoranza per tentare di mitigarne le nefandezze. Altrimenti viene da pensare che la posizione di Ricci sia la più comoda del mondo: criticare senza rischiare perché si ha la rete di protezione peraltro bella comoda atteso che la retribuzione di un europarlamentare italiano si aggira sui 17 mila euro mensili.
Terza domanda: si è posto il dubbio che deriva dalla legge Severino se non stia chiedendo consensi su un programma che non potrebbe portare a termine? Nel caso fosse eletto presidente della Regione e nel corso del suo mandato intervenisse, in forza dell’inchiesta che lo coinvolge, una condanna sarebbe infatti costretto alle dimissioni forzate. Un’eventualità remota certo, ma non impossibile e comunque già presente stante l’avviso di garanzia e allora non c’è quel retrogusto del voto a perdere? Sono nebbie che possono diradarsi o addensarsi a seconda che intervenga o meno il rinvio a giudizio di Matteo Ricci, ma accadrà comunque nell’arco dei 5 anni della prossima consiliatura.
Perciò non vale sostenere che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. Questo vale per tutti e anche per Matteo Ricci, ma c’è una differenza sostanziale. Un conto sarebbe chiedere le sue dimissioni da europarlamentare perché colto da avviso di garanzia il che configurerebbe una mostruosità politica oltreché un offesa giuridica stante l’articolo 27 della Costituzione comma due che stabilisce: "L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva"; un altro conto è presentarsi come candidato avendo comunque una, ancorché remota, alea derivante dall’inchiesta che potrebbe inficiare la promessa elettorale.
In questo caso non si tratta di un aspetto giuridico o di legittimità, ma di opportunità. C’è infine una quarta domanda che emerge da come Matteo Ricci ha risposto alla dottoressa Maria Letizia Fucci, il sostituto procuratore che conduce l’inchiesta Affidopoli. L’ex Sindaco di Pesaro si è difeso affermando: “Non mi sono mai occupato di appalti. Se qualcuno ha sbagliato, ne risponderà, ma io non ho mai tratto alcun beneficio personale. Anzi: se c’è stata una forzatura, io sono la parte lesa.” Ha fatto solo un’ammissione: "Forse ho sbagliato la scelta di un collaboratore". E poi il commento politico: "Non credo alla giustizia a orologeria, ma certo sorprende che tutto questo esploda il giorno dopo l’indizione delle elezioni, su una vicenda nota da un anno".
Anche qui sorge una domanda che se ne porta dietro un’altra. A parte il fatto che una parte lesa sicura in questa vicenda c’è: sono i contribuenti che se sarà dimostrato che gli appalti sono stati assegnati in modo illegale ha pagato di tasca vittima di questi reati. La domanda è: come può Ricci garantire che governerà la Regione con la massima attenzione se ammette che lui non si occupa di come e di chi fa le cose? Ecco al Giullare questo sfugge, come dovrebbe forse Ricci ammettere che l’orologio della Procura non si occupa di lui perché come detto dell’inchiesta si riparlerà solo ad un urne chiuse. Con un particolare però: gli elettori hanno gli occhi (si spera) ben aperti.
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