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Cultura Macerata

Un debutto fuori dagli schemi: La Vedova Allegra conquista il pubblico del Macerata Opera Festival

Un debutto fuori dagli schemi: La Vedova Allegra conquista il pubblico del Macerata Opera Festival

La Vedova contagia piano piano con la sua allegria il pubblico dell’arena Sferisterio, e vince la non facile scommessa di inaugurare il cartellone della stagione lirica maceratese numero 61. Operazione assolutamente inedita, e dunque a suo modo azzardata, ma che rientra nel mood del revival generale che l’operetta sta vivendo negli ultimi anni in Europa. C’è anche da dire che il nuovo direttore artistico Marco Vinco e la nuova sovrintendente Lucia Chiatti, subentrati lo scorso dicembre, purtroppo per loro (e per noi) non hanno ricevuto in eredità i ventimila milioni della assai consolabile vedova Anna Glawari, ma si sono trovati a costruire, gestire e promuovere in pochi mesi e con pochi soldi una programmazione fatta dai loro predecessori. Intanto, a giustificazione di una scelta tanto insolita, c’è un anniversario importante da festeggiare, ovvero i 120 anni dalla prima rappresentazione a Vienna della Vedova allegra di Franz Lehár, l’operetta in assoluto più famosa e più amata che si è guadagnata di diritto l’ingresso nel “grande repertorio” della lirica: pensate che solo nel 1909 a Parigi, a quattro anni dal suo debutto, si erano succedute più di ventimila repliche, che erano diventate oltre trecentomila nel 1948 alla morte di Lehár. Ma per tornare a tempi più recenti e a luoghi a noi più familiari, ricordiamo la Vedova allegra firmata da Vittorio Sgarbi nel 2015 al Teatro Pergolesi di Jesi (affidata a Valeria Esposito, memorabile Lucia di Lammermoor allo Sferisterio alla metà degli anni Novanta), e quella più recente del dicembre 2024 andata in scena in un tempio della lirica italiana come il Teatro Regio di Parma. E poi le altre due opere in cartellone, il Rigoletto circense e provocatorio di Federico Grazzini e il Macbeth magico e mediterraneo di Emma Dante, sono entrambe delle riprese di produzioni che hanno già debuttato negli anni scorsi sul palco dello Sferisterio e non potevano ambire ad aprire la stagione lirica.

L’allestimento in tre atti, firmato dal regista francese Arnaud Bernard, che collabora con i più prestigiosi teatri lirici del mondo e che torna dopo 25 anni allo Sferisterio dove aveva lavorato come assistente alla regia nella Bohème diretta nel 2000 dal compianto maestro Massimo de Bernart, si preannunciava elegante ma anche frizzante e leggero, grazie alla presenza di un cast giovane, formato da molti under 35, e a una scrittura musicale estremamente raffinata sebbene popolare, in cui valzer lenti si alternano a ritmi più sostenuti, con innesti di reminiscenze melodiche ungheresi, balcaniche e persine mahleriane. Insomma, il mantra ripetuto nella conferenza stampa di presentazione è stato “assolutamente no kitch ma neanche too much chic”: vietato cadere nei cliché della volgarità, vietato strizzare l’occhio a un certo intellettualismo pretenzioso. Bandita l’originalità a tutti i costi, e inseguendo l’idea poetica di un sogno, le intenzioni sono state rispettate, come è stata rispettata la grande tradizione nostrana in questo spettacolo pensato in lingua italiana, che Bernard, alla sua prima Vedova, ha affidato alle cure autoriali di Gianni Santucci, che oltre ad esserne il coreografo è anche un veterano del capolavoro del maestro austro-ungarico, con all’attivo una dozzina di produzioni diverse. Partendo dal testo originale tedesco, si è così arrivati a traduzione italiana semplice, ma con l’introduzione di qualche novità per divertire e far sorridere il pubblico. La più eclatante? La napoletanità del Cancelliere Njegus che fra battute, doppi sensi, sfottò e qui pro quo si inserisce alla perfezione con la sua spassosa verve nella veneranda tradizione comica partenopea.

Il lungo muro dello Sferisterio, che abbraccia un palco sfruttato stavolta in tutta la sua lunghezza, non doveva essere coperto o mortificato, ma reso protagonista. E infatti cantanti, coro e danzatori lo occupano in lungo e in largo affollando per tutta la durata della rappresentazione ogni centimetro del palco, con movimenti ben curati. Se il primo è l’atto del colore nero e dell’eleganza in cui prevalgono le parti recitate (a volte a onor del vero un po’ troppo lunghe, tanto che non si vede l’ora che qualcuno prima o poi ricominci a cantare, perché in fondo siamo qui per questo, per sentir cantare, o no?), il secondo è l’atto del colore bianco e della poesia in cui finalmente il canto riprende il sopravvento (e il pubblico applaude sollevato), mentre il terzo è l’atto del colore rosso e della spettacolarità, dominato dal ballo: un tourbillon di scatenati danzatori che invade il palco fra acrobatici can can e frenetici galop.

Le scene, volutamente essenziali e scarne, ma efficaci nel raccontare un’epoca, sono come un modulo che si ripete nei tre atti, ma che ad ogni atto varia per colore dominante e oggetti-simbolo: gli eleganti divani e i lampioni sfavillanti nel primo atto, intervallati da figurine nere ritagliate che si tagliano sullo sfondo, come neri e brillanti sono gli abiti degli invitati alla festa che fanno tintinnare calici e svolazzare ventagli; le sobrie cabine-ombrellone di tessuto a righe e le figurine ritagliate che nel secondo atto si trasformano in bianche signore con l’ombrellino da sole, abbinate agli eleganti costumi da mare di inizio Novecento tutti rigorosamente anch’essi sui toni del bianco panna o al massimo a righe, bianche e blu o bianche e rosse (qui l’unica eccezione è la Vedova-marinaretta vestita di scuro); infine, nel terzo atto, le figure sullo sfondo diventano quelle colorate di ballerine di can can e i lampioni della festa vengono bardati con bandiere tricolori francesi.

Dall’apertura, con l’ingresso del lungo corteo funebre fra pianti e lamenti per la dipartita del ricchissimo banchiere di corte del piccolo Stato immaginario di Pontevedro, in cui il vento che soffia complice fa respirare alla platea (piena) intense folate di incenso, all’esplosione improvvisa della festa con risa, gridolini e il continuo intreccio di tresche amorose fra nobili gaudenti e dame infedeli consumate dapprima su canapè di velluto rosso (nel primo atto, in un’atmosfera che ricorda tanto da vicino le feste parigine della ormai leggendaria Traviata degli specchi), poi nelle cabine di tessuto in riva al mare in Normandia (nel secondo atto, all’ennesima festa organizzata dalla Vedova), e infine fra l’andirivieni di camerieri stile Che Maxim’s e ballerine stile Moulin Rouge (nel terzo atto, nell’ultima festa patriottica e pruriginosa sempre organizzata dalla ormai quasi ex Vedova per tentare di riconquistare il suo vero e unico amore Danilo), alla chiusura letteralmente col botto con i fuochi d’artificio esplosi sul finale sopra al muro dello Sferisterio, questa Vedova riesce nell’intento ed evita lo scontento. L’amore come sempre trionfa, i milioni ereditati sono salvi e speriamo anche il botteghino per le prossime repliche. E anzi, visto che lo Sferisterio si è piazzato quest’anno al primo posto fra i teatri di tradizione in Italia, vediamo se questa sua Vedova farà tendenza e trascinerà con la sua allegria altri teatri a puntare sull’operetta.

Nel cast di buon livello spicca su tutte l’interpretazione del soprano romeno Mihaela Marcu, perfettamente a suo agio nella parte di Anna Glawari – del resto è un ruolo che ha già calzato svariate altre volte, e si vede –, sia vocalmente (ciò che ci interessa di più), sia nella recitazione (che comunque in un genere ibrido come l’operetta è altrettanto importante). A fianco a lei il tenore Alessandro Scotto di Luzio nella parte del Conte Danilo Danilowitsch, che sfoggia a sua volta una grande dimestichezza con l’operetta e raccoglie un bel successo personale. Apprezzamenti anche per l’ingenuo Barone Mirko Zeta di Alberto Petricca (che è stato un mandarino nella Turandot 2024 allo Sferisterio), per la moglie fedifraga Valencienne del soprano trentenne Cristin Arsenova, per il Camillo de Rossilon del tenore ventottenne romano Valerio Borgioni (già Rodolfo nella Boheme dello scorso anno), lo sfrontato Njegus dell’attore e regista teatrale Marco Simeoli, il Bogdanowitsch del baritono Giacomo Medici (che sarà anche Marullo nel Rigoletto che debutta stasera), il visconte Cascada del tenore Cristiano Olivieri, il Raoul de Saint-Brioche del tenore Francesco Pittari, la Sylviane del soprano Laura Esposito (nel doppio ruolo quest’anno del Paggio della Duchessa nel Rigoletto), il Kromow del tenore Stefano Consolini, la Olga del soprano Federica Sardella, il Pritschitsch del basso Davide Pelissero e la Praskowia del mezzosoprano Elena Serra.

Man mano che il pubblico entrava nello spirito dell’opera, ops dell’operetta, si è fatto coinvolgere in numerosi battimano ritmati a suon di musica, fino a confondersi con gli applausi finali, lunghi e convinti, per il cast al completo, inclusi lo scenografo Riccardo Massironi, la costumista Maria Carla Ricotti, Fiammetta Baldisseri che ha firmato le luci, il coreografo Gianni Santucci, il maestro del coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” Christian Starinieri e le scatenate “grisettes”: Camilla Pomilio (Lolo), Giulia Gabrielli (Dodo), Silvia Giannetti (Jou-jou), Lucia Spreca (Frou-frou), Sara Bacciocchi (Clo-clo) e Roberta Minnucci (Margot). Successo personale anche per la direzione del maestro Marco Alibrando, classe 1987, che ha diretto in prestigiosi Festival e che pochi giorni fa, a fine giugno, ha debuttato al Teatro alla Scala con il Concerto Istituzionale degli allievi dell’Accademia del Teatro alla Scala 2025, ed è stato di recente nominato primo direttore del Deutsches Nationaltheater und Staatskapelle Weimar a partire dalla stagione 2025/2026.

Appuntamento con le prossime recite de La vedova allegra per domenica 27 luglio, sabato 2 e sabato 9 agosto, alle ore 21.

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